sabato 14 febbraio 2009

Storia della festa di San Valentino - lupercalia di Lupercus

La leggenda di San Valentino

Il tentativo della Chiesa cattolica di porre termine ad un popolare rito pagano per la fertilità, è all’origine di questa festa degli innamorati.

Fin dal quarto secolo A. C. i romani pagani rendevano omaggio, con un singolare rito annuale, al dio Lupercus. I nomi delle donne e degli uomini che adoravano questo Dio venivano messi in un’urna e opportunamente mescolati. Quindi un bambino sceglieva a caso alcune coppie che per un intero anno avrebbero vissuto in intimità affinché il rito della fertilità fosse concluso. L’anno successivo sarebbe poi ricominciato nuovamente con altre coppie.

Determinati a metter fine a questa primordiale vecchia pratica, i padri precursori della Chiesa hanno cercato un santo “degli innamorati per sostituire il deleterio Lupercus. Così trovarono un candidato probabile in Valentino, un vescovo che era stato martirizzato circa duecento anni prima.

La Storia di San Valentino

A Roma, nel 270 D. C il vescovo Valentino di Interamna, (oggi è la città di Terni), amico dei giovani amanti, fu invitato dall’imperatore pazzo Claudio II e questi tentò di persuaderlo ad interrompere questa strana iniziativa e di convertirsi nuovamente al paganesimo. San Valentino, con dignità, rifiutò di rinunciare alla sua Fede e, imprudentemente, tentò di convertire Claudio II al Cristianesimo. Il 24 febbraio, 270, San Valentino fu lapidato e poi decapitato.

La storia inoltre sostiene che mentre Valentino era in prigione in attesa dell’esecuzione, sia “caduto” nell’amore con la figlia cieca del guardiano, Asterius, e che con la sua fede avesse ridato miracolosamente la vista alla fanciulla e che, in seguito, le avesse firmato il seguente messaggio d’addio: “dal vostro Valentino,” una frase che visse lungamente anche dopo la morte del suo autore.

Il Santo

San Valentino (Interamna Nahars, ca. 176Roma, 273) fu un vescovo e un martire cristiano. Venerato come santo dalla Chiesa cattolica, da quella ortodossa e successivamente dalla Chiesa anglicana, è considerato impropriamente patrono degli innamorati. La città di Terni costudisce il corpo del santo e lo invoca come pricipale patrono. Le reliquie del santo si trovano presso la Basilica di San Valentino: tali reliquie pare furono portate nella città dai tre discepoli del filosofo Cratone, Apollonio Efebo e Procuro, convertiti dal futuro santo, e che per questo trafugamento furono martirizzati. Altre reliquie sono presenti nella Cattedrale di Maria Assunta di Savona. È conosciuto anche come san Valentino da Interamna o san Valentino da Terni.
Fu convertito al cristianesimo ed ordinato vescovo da san Feliciano di Foligno nel 197.

Ma nell’anno 270 Valentino si trovava a Roma per predicare il Vangelo e convertire i pagani. Invitato dall’imperatore Claudio II il Gotico a sospendere la celebrazione religiosa e ad abiurare la propria fede, rifiutò di farlo tentando anzi di convertire l’imperatore al cristianesimo.

L’imperatore ebbe rispetto di Valentino e lo graziò affidandolo ad una nobile famiglia.

Valentino venne arrestato una seconda volta sotto Aureliano, succeduto a Claudio II il Gotico. L’impero proseguiva nelle sue persecuzioni contro i cristiani ed i vertici della Chiesa di Roma e, poiché la popolarità di Valentino stava crescendo, i soldati romani lo catturarono e lo portarono fuori città lungo la via Flaminia per flagellarlo, temendo che la popolazione potesse insorgere in sua difesa. Questo terzo arresto gli fu fatale: morì decapitato nel 273 per mano del soldato romano Furius Placidus, agli ordini dell’imperatore Aureliano.

Il Culto

È commemorato nel martirologio romano il 14 febbraio. Le sue spoglie furono sepolte sulla collina di Terni dove sorge la basilica in cui sono attualmente custodite, racchiuse in una teca. Altre reliquie sono custodite presso savriate chiese. Molte tradizioni legate al santo, sono riscontrabili nei paesi in cui egli e’ venerato come Patrono. La figura di Valentino come santo patrono degli innamorati viene tuttavia messa in discussione da taluni che la riconducono a quella di un altro sacerdote romano, anch’egli decapitato pressappoco negli stessi anni.

La Festa di San Valentino

Questa festa venne istituita un paio di secoli dopo la morte di Valentino, nel 496, quando papa Gelasio I decise di sostituire alla festività pagana della fertilità (i lupercalia dedicati al dio Luperco) una ispirata al messaggio d’amore diffuso dall’opera di San Valentino. Tale festa ricorre annualmente il 14 febbraio ed oggi è conosciuta e festeggiata in tutto il mondo. La città di Terni, che custodisce delle reliquie del santo, nel mese di febbraio, rende omaggio a San Valentino, patrono della città, con una cornice di appuntamenti culturali, riflessivi, di festa, ma anche liturgici volti a tenere insieme la dimensione religiosa delle celebrazioni del Santo e quella civile delle iniziative ispirate alla forza evocativa dello stesso.

Leggende Agiografiche

Sono molte le leggende popolari, entrate a far parte della cultura popolare, su episodi riguardanti la vita di questo santo:

  • Una leggenda narra che Valentino, graziato ed “affidato” ad una nobile famiglia, avrebbe compiuto il miracolo di ridare la vista alla figlia cieca del suo carceriere, Asterius: Valentino, quando stava per essere decapitato, teneramente legato alla giovane, la salutò con un messaggio d’addio che si chiudeva con le parole: dal tuo Valentino….
  • Un’altra narra come un giorno il vescovo, passeggiando, vide due giovani che stavano litigando ed andò loro incontro porgendo una rosa e invitandoli a tenerla unita nelle loro mani: i giovani si allontanarono riconciliati. Un’altra versione di questa leggenda narra che il santo sia riuscito ad ispirare amore ai due giovani facendo volare intorno a loro numerose coppie di piccioni che si scambiavano dolci effusioni di affetto; da questo episodio si crede possa derivare anche la diffusione dell’espressione piccioncini.
  • Secondo un altro racconto popolare, Valentino, già vescovo di Terni, unì in matrimonio la giovane cristiana Serapia, gravemente malata, e il centurione romano Sabino; l’unione era ostacolata dai genitori di lei ma, chiamato dal centurione al capezzale della giovane morente, Valentino battezzò dapprima il giovane soldato e quindi lo unì in matrimonio alla sua amata, prima che entrambi cadessero in un sonno profondo. Nel 1699 giungono a Bientina dalle catacombe di San Callisto sulla Via Appia i resti mortali di San Valentino. La fama dei miracoli subito attribuitigli gira la Toscana; nel 1717 lo stesso granduca di Toscana Gian Gastone de’ Medici viene a venerarne le spoglie. Identico omaggio al santo viene reso nel 1766 e 1768 dal Granduca Pietro Leopoldo di Lorena. La festività del Santo Patrono di Bientina si tiene nella domenica di Pentecoste ed i festeggiamenti si protraggono anche nei giorni seguenti.

Non si può parlare di Bientina senza nominare il suo Patrono, San Valentino Martire, le cui spoglie sono conservate nella Pieve di Santa Maria Assunta. La fama di taumaturgo di questo santo è nota in tutta la regione e anche oltre. Fin dal suo ingresso nella terra di Bientina fece parlare di sé per i miracoli, talvolta strepitosi, che iniziò a fare, in particolare nei confronti di ossessi e indemoniati, tanto da essere nominato con San Valentino degli indemoniati. Da antichi documenti dell’epoca è possibile conoscere la storia di questo Santo, i cui resti furono riesumati dalle catacombe di San Callisto, sulla via Appia Antica, il 9 novembre 1681 e consegnati alla nobildonna romana Laura Grozzi, la quale li donò, tramite Giovan Maria Maestrini – Provinciale dei Minori Osservanti, alla Comunità di Bientina. Numerose e molto sentite dalla popolazione sono le celebrazioni religiose che si svolgono nel periodo della celebrazione del Santo Patrono, e molto partecipata è la processione con la reliquia del Santo che si tiene il sabato sera. Di particolare interesse è inoltre la fiera paesana che si tiene la domenica, con bancarelle e luna park, alla quale partecipano migliaia di persone anche da comuni vicini.


Lupercalia


I Lupercali (in latino: Lupercalia) erano una festività romana che si celebrava il 15 febbraio, in onore di Fauno nella sua accezione di Luperco (in latino Lupercus), cioè protettore del bestiame ovino e caprino dall'attacco dei lupi.

Secondo un'altra ipotesi, avanzata da Dionisio di Alicarnasso[1], i Lupercalia ricordano il miracoloso allattamento dei due gemelli Romolo e Remo da parte di una lupa che da poco aveva partorito; Plutarco dà una descrizione minuziosa dei Lupercalia nelle sue Vite parallele ("Vita di Giulio Cesare", cap. 61). I Lupercalia venivano celebrati nella grotta chiamata appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove, secondo la leggenda, i fondatori di Roma, Romolo e Remo sarebbero cresciuti allattati da una lupa.

Data

La festività si svolgeva il 15 febbraio perché questo mese era il culmine del periodo invernale nel quale i lupi, affamati, si avvicinavano agli ovili minacciando le greggi.

Storia

Le origini della festa sono avvolte nella leggenda: secondo Dionisio di Alicarnasso[2], i Lupercali sarebbero stati istituiti da Evandro, che aveva recuperato un rito arcade. Tale rito consisteva in una corsa a piedi degli abitanti del Palatino (allora chiamato Pallanzio, dalla città dell'Arcadia di Pallanteo), senza abiti e con le pudenda coperte dalle pelli degli animali sacrificati, tutto in onore di Pan Liceo ("dei lupi").

Secondo una leggenda narrata da Ovidio[3], al tempo di re Romolo vi sarebbe stato un prolungato periodo di sterilità nelle donne. Donne e uomini si recarono perciò in processione fino al bosco sacro di Giunone, ai piedi dell'Esquilino, e qui si prostrarono in atteggiamento di supplica. Attraverso lo stormire delle fronde, la dea rispose che le donne dovevano essere penetrate (inito, che rimanda a Inuus, altro nome di Fauno) da un sacro caprone sgomentando le donne, ma un augure etrusco interpretò l'oracolo nel giusto senso sacrificando un capro e tagliando dalla sua pelle delle strisce con cui colpì la schiena delle donne e dopo dieci mesi lunari le donne partorirono.

I Lupercalia furono una delle ultime feste romane ad essere abolite dai cristiani. In una lettera di papa Gelasio I[4] si riferisce che a Roma durante il suo pontificato (quindi negli anni fra il 492 e il 496) si tenevano ancora i Lupercali, sebbene ormai la popolazione fosse da tempo, almeno nominalmente, cristiana. Nel 495 Gelasio scrisse questa lettera (in realtà un vero e proprio trattato confutatorio) ad Andromaco, l'allora princeps Senatus, rimproverandolo della partecipazione dei cristiani alla festa. Si ignora se la festa sia stata abolita quell'anno, come riteneva il cardinale Cesare Baronio[5], o se sia sopravvissuta per qualche tempo ancora. William Green[6] riteneva che probabilmente il significato religioso della festa fosse andato perduto (del resto era già trascorso un secolo dalla proibizione dei culti romani decretata per legge da Teodosio I) e che ormai avesse un carattere puramente folklorico. Più tardi, nel VII secolo, venne istituita la festa della Candelora e collocata al 2 febbraio.

Tra le cerimonie pagane romane che Giacomo Boni mise in programma per il primo anniversario della marcia su Roma, ci fu anche il ripristino delle corse dei Lupercalia, inaugurate con l'esplorazione dell'antro celeberrimo, scrive Boni[7].

Celebrazione

La festa era celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia; soltanto intorno alle anche portavano una pelle di capra ricavata dalle vittime sacrificate nel Lupercale.

I Luperci, diretti da un unico magister, erano divisi in due schiere di dodici membri ciascuna chiamate Luperci Fabiani ("dei Fabii") e Luperci Quinziali (Quinctiales, "dei Quinctii"), ai quali per un breve periodo Gaio Giulio Cesare aggiunse una terza schiera chiamata Luperci Iulii, in onore di se stesso. Secondo Dumézil è probabile che in origine le due schiere fossero formate dai membri delle gentes dalle quali prendono il nome (cioè i Fabii e i Quinctii). Secondo Mommsen un indizio potrebbe essere il fatto che il nome Kaeso si trova soltanto tra i membri di quelle due gentes e sarebbe collegato al februis caedere, cioè al tagliare (caedere) le strisce (februa) dalla pelle delle capre sacrificate.

Sulla base di alcuni passi di Livio[8], si è ritenuto generalmente che i luperci Fabiani fossero originari del Quirinale e i Quinziali del Palatino, ma ciò è contestata da Dumézil, per il quale non ci sono sufficienti motivi per trarre questa deduzione, anche perché i riti dei Lupercalia sono strettamente legati soltanto al colle Palatino e non anche al Quirinale.

In età repubblicana i Luperci erano scelti fra i giovani patrizi ma da Augusto in poi la cosa fu ritenuta sconveniente per loro e ne fecero parte solo giovani appartenenti all'ordine equestre[9].

Plutarco riferisce nella vita di Romolo[10] che il giorno dei Lupercalia, venivano iniziati due nuovi luperci (uno per i Luperci Fabiani e uno per i Luperci Quinziali) nella grotta del Lupercale; dopo il sacrificio di capre (si ignora se una o più di una, se di genere maschile o femminile: secondo Quilici un capro) e, pare, di un cane[11] (che per Dumézil è cosa normale se i Luperci sono "quelli che cacciano i lupi"), i due nuovi adepti venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano ridere.

Questa cerimonia è stata interpretata come un atto di morte e rinascita rituale, nel quale la "segnatura" con il coltello insanguinato rappresenta la morte della precedente condizione "profana", mentre la pulitura con il latte (nutrimento del neonato) e la risata rappresentano invece la rinascita alla nuova condizione sacerdotale.

Venivano poi fatte loro indossare le pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Dopo un pasto abbondante, tutti i luperci, compresi i due nuovi iniziati, dovevano poi correre intorno al colle saltando e colpendo con queste fruste sia il suolo per favorirne la fertilità sia chiunque incontrassero, ed in particolare le donne, le quali per ottenere la fecondità in origine offrivano volontariamente il ventre, ma al tempo di Giovenale[12] ai colpi di frusta tendevano semplicemente le palme delle mani.

In questa seconda parte della festa i luperci erano essi stessi contemporaneamente capri e lupi: erano capri quando infondevano la fertilità dell'animale (considerato sessualmente potente) alla terra e alle donne attraverso la frusta, mentre erano lupi nel loro percorso intorno al Palatino. Secondo Quilici, la corsa intorno al colle doveva essere intesa come un invisibile recinto magico creato dagli scongiuri dei pastori primitivi a protezione delle loro greggi dall'attacco dei lupi; la stessa offerta del capro avrebbe dovuto placare la fama dei lupi assalitori. Tale pratica inoltre non doveva essere stata limitata al solo Palatino ma in epoca preurbana doveva essere stata comune a tutte le località della zona, ovunque si fosse praticato l'allevamento ovino.

C'è incertezza sull'etimologia delle parole Lupercalia, Luperci e Lupercus, anche se la base è sicuramente costituita dalla parola lupus ("lupo"). Secondo Ludwig Preller[13], Georg Wissowa[14] e Ludwig Deubner[15] si tratterebbe di un composto formato dalle parole lupus e arcere ("cacciare"); secondo Theodor Mommsen[16], Henri Jordan[17] e Walter Otto[18], invece, potrebbe essere un derivato sul tipo della parola latina noverca ("matrigna") da suddividere in nou-er-ca, anche perché nella celebrazione dei Lupercalia niente sembra far pensare a qualcosa rivolto contro i lupi. Émile Benveniste[19], però, ritiene che la parola noverca vada suddivisa in *nou-er+ca- (cfr. gr. nearós, arm. nor), rendendo più difficoltoso il confronto con lupercus. Secondo Jens S. Th. Hanssen[20], invece, Lupercalia sarebbe una retroformazione dalla parola luperca, a sua volta diminutivo di lupa, con una possibile influenza del nome di famiglia Mamerci, mentre per Joachim Gruber[21] l'origine si troverebbe in un ipotetico antico composto *lupo-sequos ("che è inseguito dai lupi").

Secondo Karl Kerényi[22], il carattere dei Luperci farebbe pensare alla sovrapposizione in loro di due rappresentazioni opposte: da una parte quella del lupo che sarebbe originaria e proveniente dal nord Europa, dall'altra il capro, successivo e proveniente dal sud. Per Andreas Alföldi[23] i Luperci sarebbero un relitto del "Männerbund" che avrebbe fondato Roma. Secondo Dumézil, invece, i Luperci rappresentavano gli spiriti divini della natura selvaggia subordinati a Fauno. Nel giorno dei Lupercalia, infatti, l'ordine umano regolato dalle leggi si interrompeva e nella comunità faceva irruzione il caos delle origini, che normalmente risiede nelle selve.

Secondo Dumézil, i Lupercali avrebbero avuto in origine anche la funzione di conferma della regalità adducendo come indizi alcuni passi compiuti da Cesare nel suo piano di restaurazione della monarchia a Roma. Egli infatti istituì una terza schiera di Luperci che intitolò a sé stesso (i Luperci Iulii)[24][25][26] e inscenò un tentativo di incoronazione durante i Lupercali dell'anno 44 a.C., facendosi offrire una corona intrecciata d'alloro da Marco Antonio che era uno dei Luperci; viste le reazioni del pubblico, Cesare rifiutò la corona e la fece portare come offerta al tempio di Giove in Campidoglio[27]. In particolare l'atto di Marco Antonio che esce dal gruppo dei Lupercali e, nudo, balza sui rostri per incoronare Cesare, potrebbe essere, sempre secondo Dumézil, la riproposizione di una scena antica all'epoca ancora viva nella memoria popolare.

Note

  1. ^ Dionisio di Alicarnasso. Antichità romane, I, 79, 6.
  2. ^ Dionisio di Alicarnasso. Antichità romane, I, 80, 1-3.
  3. ^ Ovidio. Fasti, II, 425-452.
  4. ^ Gelasio Papa I. Adversus Andromachum senatorem et caeteros Romanos qui Lupercalia secundum morem pristinum colenda constituunt.
  5. ^ Cesare Baronio. Annales Ecclesiastici, t. IV-VII, p. 616.
  6. ^ William M. Green. The Lupercalia in the Fifth Century, Classical Philology, Vol. 26, gennaio 1931, No. 1, pp. 60-69.
  7. ^ Eva Tea. Giacomo Boni nella vita del suo tempo. Milano, Casa Editrice Ceschina, 1932, volume II, pp. 557-558.
  8. ^ Tito Livio. Storia di Roma, V, 46, 2 (Sacrificium erat statum in Quirinali colle genti Fabiae, cioè "La gente Fabia celebrava tradizionalmente un sacrificio sul colle Quirinale") e V, 52, 3 (Caio Fabio...sollemne Fabiae gentis in colle Quirinali obiit, cioè "Caio Fabio andò a compiere il rito della gente Fabia sul colle Quirinale).
  9. ^ Jörg Rüpke. La religione dei Romani. Torino, Einaudi, 2004, p. 196. ISBN 8806165860.
  10. ^ Plutarco. Romolo, 21
  11. ^ Plutarco. Questioni Romane, 111.
  12. ^ Giovenale. Satire, II, 142.
  13. ^ Ludwig Preller. Römische Mythologie.
  14. ^ Georg Wissowa. Religion und Kultus der Römer. Monaco, 1912, p. 209.
  15. ^ Ludwig Deubner. Lupercalia, Archiv für Religionswisswnschaft, 1910, 13, 481-508.
  16. ^ Theodor Mommsen. Roman history. Londra, 1868.
  17. ^ Henri Jordan, citato in Ludwig Preller, Römische Mythologie.
  18. ^ Walter Otto. Faunus, in REPW 6, 2 (1927), col. 2064.
  19. ^ Émile Benveniste. Origines de la formation des noms en indo-européen, I, 1935, p. 29.
  20. ^ Jens S. Th. Hanssen. Latin diminutives. Årbok for Universitetet i Bergen, 1951, pp. 98-99.
  21. ^ Joachim Gruber. Glotta 39, 1961, pp. 273-276.
  22. ^ Karl Kerényi. Wolf und Ziege am Fest der Lupercalia, Mélanges Jules Marouzeau. Parigi, 1948, pp. 309-317 (ripubblicato in Niobe. Zurigo, 1949, pp. 136-147.).
  23. ^ Andreas Alföldi. Die trojanischen Urahnen der Römer, Rektoratsprogramm der Universität Basel für das Jahr 1956. Basilea, 1957, p. 24.
  24. ^ Svetonio. Vita di Cesare, 76.
  25. ^ Cassio Dione. Storia romana, 44, 6, 2.
  26. ^ Cassio Dione. Storia romana, 45, 30, 2.
  27. ^ Plutarco. Cesare, 61, 2-3.

Bibliografia

  • Renato Del Ponte. La religione dei Romani. Milano, Rusconi, 1992. ISBN 8818880292.
  • Georges Dumézil. La religione romana arcaica. Milano, RCS Libri, 2001. ISBN 8817866377.
  • Lorenzo Quilici. Roma primitiva e le origini della civiltà laziale. Roma, Newton Compton, 1979, pp. 227-228.

Voci correlate su Wikipedia

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